“Non ho mai pensato da giovane che sarei diventata un’attrice di cinema, da bambina e da ragazza andavo all’opera e a mio fratello, seduto accanto a me, dicevo: un giorno sarò dall’altra parte del sipario. Quindi ho iniziato con il teatro. Ma ho sempre amato andare al cinema, non amavo la mia vita, e per me la sala era un luogo magico. Un film, come un libro, era in grado di trasmettermi l’idea che, nonostante le difficoltà, la vita valesse la pena di essere vissuta”. Accolta da un lungo e caloroso applauso, Fanny Ardant si è concessa generosamente ieri sera a Roma, in piazza San Cosimato, al pubblico, in un incontro moderato dalla scrittrice premio Pulitzer Jhumpa Lahiri. L’occasione è stata la proiezione del film “La signora della porta accanto”, con cui l’attrice ha esordito al cinema nel 1981 diretta dal regista François Truffaut, nell’ambito della manifestazione Il Cinema in Piazza, organizzata dall’Associazione Piccolo America. Il debutto sul grande schermo è avvenuto per caso: “Truffaut – ha raccontato Ardant – mi aveva vista in uno sceneggiato televisivo e ‘La signora della porta accanto’ è stato il primo film che ho fatto. Mi aveva mandato per posta una sinossi senza dialoghi e ricordo che pensai che quella storia rappresentava tutto quello in cui credevo e che aveva valore per me nella vita in quel momento: l’amore. Ero davvero convinta che si potesse morire per amore. Fare questo film con Gérard Depardieu è stato come entrare in una foresta incantata. Di quell’esperienza mi è rimasto soltanto il ricordo della grande gioia che ho provato nel farlo, non ricordo più le difficoltà o le incertezze. È un film che abbiamo girato per passione verso il cinema e anche dopo, tutti i film che ho fatto, li ho scelti per passione. Ogni volta che mi sono buttata in un progetto l’ho fatto perché lo amavo, non come attrice professionista, ma da appassionata dei ruoli che mi venivano offerti. Ho sempre cercato di interpretare donne che mi sarebbe piaciuto essere nella vita. Per me è sempre stato come fare un tuffo nel mare. Incoscientemente”. “L’universo di François Truffaut – ha ricordato – era un universo romanzesco, a lui interessavano i rapporti tra le persone, il fil rouge che legava tutto era il racconto dell’amore o della mancanza di amore, l’attesa dell’amore, il vuoto senza l’amore e penso che se avesse avuto la possibilità di continuare a fare film avrebbe continuato a raccontare l’amore fra gli esseri umani. Non era interessato agli aspetti sociali. Anche ne ‘L’ultimo metro’, ambientato in una Parigi occupata dai nazisti, il fulcro era la storia d’amore. Per lui i personaggi e le loro pulsioni carnali e sentimentali erano al centro di tutto. Non ha mai voluto dare lezioni morali o politiche a nessuno. I sentimenti erano la prima cosa, l’amore che ti rende matto, l’amore che ti rende vivo ma che ti può anche distruggere”. L’icona del cinema francese, 73 anni, ha parlato anche del suo legame con l’Italia e soprattutto con Roma: “Ho amato questa città prima ancora di fare il cinema. Da ragazza ci venivo spesso, anche da sola, e mi aveva conquistato per la sua bellezza, la sua forza, la diversità dei quartieri, per il modo di essere dei romani. Mi piaceva tutto. Poi un giorno, ero già attrice in Francia, è arrivata la chiamata di Ettore Scola che mi offriva una parte in ‘La famiglia’. L’idea di poter fare un film in Italia mi piaceva da morire e poi avrei avuto l’opportunità di conoscere Vittorio Gassman. Mi sono ritrovata nella città che amavo, a fare un mestiere che amavo, con gente che ammiravo. A quel punto ho anche voluto imparare la lingua”. Parole di apprezzamento, infine, per la manifestazione e l’attività dell’Associazione Piccolo America: “Trovo meraviglioso dare la possibilità di vedere film di tutte le epoche e provenienti da ogni parte del mondo, è formidabile”.
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